Negli ultimi decenni la gestione del sistema foraggero dell’azienda zootecnica da latte è stata interessata da un processo di intensificazione produttiva e di semplificazione, avvenuto in seguito alla riduzione del numero di allevamenti, alla contemporanea crescita delle dimensioni delle aziende attive, all’aumento delle potenzialità produttive degli animali e delle colture agrarie, e alla riduzione delle tipologie di colture foraggere utilizzate per la produzione di alimenti. In determinate situazioni aziendali, l’intensificazione e la semplificazione sono state portate all’eccesso, tanto che in molte aziende da latte l’intera superficie aziendale è investita in mono-successione a mais, mentre prati e altre foraggere sono stati completamente abbandonati, con ripercussioni pesanti sulla sostenibilità ambientale ed economica delle aziende. Le difficoltà della congiuntura dell’ultimo decennio hanno insegnato che l’abbinamento fra attività zootecnica per la produzione di latte e la gestione agronomica efficiente della superficie aziendale possono costituire un binomio vincente, sia per il ritorno economico sia per i risvolti ambientali e di sostenibilità sia sui risvolti connessi alle richieste incalzanti dell’opinione pubblica. Il latte è una commodity con caratteristiche molto ben definite, che tuttavia difficilmente lo distinguono sul mercato e che, unitamente alla crescente competizione tra produttori, rendono praticamente impossibile all’allevatore influenzarne il prezzo di vendita. Inoltre, la qualità del latte è sempre più strettamente legata al concetto di sanità tanto che ad oggi il termine salubrità del latte è utilizzato come sinonimo di qualità (Leitner et al, 2015). La qualità interseca include diversi concetti dalle rese casearie, ai titoli in grasso e proteina, alla ridotta presenza di residui di agrofarmaci e farmaci veterinari, all’assenza di micotossine ed enterotossine, al benessere degli animali allevati.
Negli ultimi anni il settore agricolo è stato caratterizzato da una crescente attenzione verso il tema della sicurezza alimentare. In maniera ancora più evidente, questa attenzione si è trasformata in una precisa domanda dei consumatori, che hanno mostrato la preferenza ad alimenti privi o con basso contenuto di residui di molecole di sintesi chimica. Inizialmente si è sviluppato il concetto di “Residuo Controllato”. Il prodotto si definisce a “Residuo Controllato” quando i residui di prodotti fitosanitari di sintesi chimica sono inferiori o uguali ad un certo valore percentuale rispetto al Limite Massimo Residui (LMR) previsto dalla legge (Regolamento 396/2005).
È proprio sulla base di questo stimolo che nasce l’agricoltura a “Residuo Zero”. Un prodotto agricolo si definisce a “Residuo Zero” quando i residui di prodotti fitosanitari di sintesi sono inferiori o uguali a 0,01 mg/kg (10 ppb). Tale soglia è intesa come il limite di quantificazione analitica attualmente proposto dai laboratori di prova più qualificati per buona parte delle prove per la ricerca delle molecole dei principi attivi degli agrofarmaci. La possibilità di certificare prodotti lattiero-caseari a residuo zero necessita l’incentivazione e la diffusione di sistemi di produzione che aggiungono, ai già restrittivi principi della Produzione Integrata e delle buone pratiche agricole (Standard prerequisito di riferimento), la riduzione degli interventi fitosanitari allo stretto necessario, accoppiata alla scelta di prodotti fitosanitari a basso impatto ambientale caratterizzati da una bassa residualità e ridotto impatto per aria, acqua e suolo, fino all’ottenimento di prodotti privi di residui di agrofarmaci in quantità rilevabile.
Molti segnali vanno in quella direzione. Oggi in Italia, seppur ancora in modo pionieristico, si sta affacciando un nuovo approccio che va incontro alle esigenze dei consumatori e piace ai retailer: il residuo zero certificato. Il vantaggio è arrivare più agevolmente al risultato con un prodotto che abbia un claim comprensibile al consumatore e con un costo a scaffale inferiore al biologico (www.csqa.it, 2021). Dai primi studi di mercato, risulta che il claim ‘residuo zero’ è più facilmente comprensibile per il consumatore che cerca un prodotto più salubre. Spesso il concetto di ‘produzione biologica’ risulta di più difficile comprensione per il consumatore, in quanto implica principalmente la tutela di beni pubblici. Il residuo zero può rappresentare una terza via di produzione, alternativa all’agricoltura integrata e alla produzione biologica. Questo offre un necessario compromesso tra il biologico e una via più facilmente percorribile nei sistemi agricoli intensivi dell’agricoltura convenzionale o integrata della Pianura Padana. A livello della comunità scientifica questo sistema deve essere studiato e certificato per raggiungere gli obbiettivi comuni dell’agricoltura di salvaguardia e aumento della fertilità del suolo, reintroduzione delle rotazioni e su scelte agronomiche e zootecniche appropriate anche a tutela ed integrazione della biodiversità e del benessere animale. L’adozione della mono-successione ha condotto all’acuirsi dei problemi fitosanitari con un aumento progressivo degli input per evitare la stagnazione o riduzione delle rese produttive e un crescente uso di trattamenti con agrofarmaci per contenere gli attacchi di funghi e insetti, anche di recente introduzione (es. diabrotica e cimice asiatica), resi maggiormente dannosi dal susseguirsi per molti anni della medesima coltura sullo stesso terreno. Gli interventi di difesa sulla coltura hanno evidenziato nel tempo una riduzione dell’efficacia nel contenimento di patogeni fungini e insetti fitofagi, spesso accompagnati da preoccupanti effetti collaterali legati all’aumento della contaminazione da micotossine e di residui di agrofarmaci e all’abbattimento dell’artropodofauna utile. I danni causati alla coltura possono poi costituire una via preferenziale di proliferazione di funghi tossigeni ed acuire il problema delle contaminazioni delle filiere di approvvigionamento zootecnico sia derivanti dal mercato sia relative all’autoproduzione aziendale. Infatti, i funghi rappresentano un rischio in costante aumento non solo per le problematiche fitosanitarie, legate principalmente allo sviluppo di marciume rosso e marciume rosa, ma per la capacità di produrre micotossine. L’Aflatossina B1, l’Ocratossina A (OTA), le Fumonisine B1 (FB1) e B2 (FB2), il Deossinivalenolo (DON) e lo Zearalenone (ZEA) sono alcune tra le micotossine più frequentemente rinvenute negli alimenti zootecnici e soprattutto sul mais e i metaboliti Aflatossina M1 e M2, alfa-zearalenolo, beta-zearalenolo e de-epossi-DON. Tali micotossine entrano nella filiera alimentare rappresentando una minaccia per la salute umana e animale, essendo presenti in colture contaminate, poi destinate alla produzione di alimenti e mangimi (EFSA, 2015). In caso di ingestione di micotossine con la dieta, anche in dosi non dannose a breve termine, si possono verificare intossicazioni di tipo cronico, e quindi non facilmente evidenziabili nell’allevamento, ma con ripercussioni non trascurabili dal punto di vista economico.